martedì 9 luglio 2013

Quali Riforme per l’Italia?



Salvatore Perri

La condizione Economico-Finanziaria dell’Italia è particolarmente seria. Migliorarla è estremamente difficile, per farlo ci sarebbe bisogno di interventi strutturali consistenti sui comparti reali del sistema economico (investimenti) e contestualmente di vere “riforme” normative che traccino le linee guida un percorso di sviluppo realistico per i prossimi decenni. La complessità della realtà richiede risposte complesse, non in termini formali, ma in termini di comprensione delle dinamiche che stanno determinando l’arretramento strutturale del “sistema Italia”. Questo livello di comprensione, ascoltando le priorità degli ultimi 3 governi, è piuttosto scarso.

Imprese. La crisi del settore industriale italiano viene da almeno due decenni. La mancanza di una politica industriale da parte di governi si è sommata all’inevitabile perdita di competitività delle imprese italiane sui mercati internazionali a seguito della globalizzazione economica. Ad una prima fase di difficoltà delle grandi imprese del nord-ovest, il mondo imprenditoriale ha reagito mutando la forma della produzione attraverso ristrutturazioni che permettessero produzioni innovative e di qualità su scala più piccola. Tuttavia l’avvento di nuovi competitori sui mercati, caratterizzati da bassi costi di produzione, ha provocato la crisi anche del “miracolo nord-est”. L’Italia, sostanzialmente, è un paese post-industriale, laddove il peso dei servizi e del terziario (sostenuto dalla domanda interna) è destinato ad essere predominante negli anni avvenire rispetto alla produzione di merci in senso stretto.
Negare questo elemento contribuisce a far perdere del tempo prezioso aspettando che “rinascano” nuove imprese come quelle che abbiamo conosciuto. Questo non accadrà.
E’ necessario sostenere le aziende competitive attraverso il supporto alla riqualificazione ed alla modernizzazione produttiva, ed attraverso il taglio degli oneri fiscali che incidono sul costo del prodotto, non attraverso ulteriori tagli al costo del lavoro (totalmente inutili e dannosi, come si spiegherà in seguito).
Inoltre, anziché insistere sul rifinanziamento della cassa integrazione di aziende che non possono tornare alla produzione, è necessario investire su piani di riqualificazione territoriale che permettano alle imprese di perseguire obiettivi pubblici con lavoro privato (sicurezza del territorio, adeguamento antisismico, mobilità sostenibile, bonifiche di discariche, solo per citarne alcuni).

Lavoro. E’ stata opinione diffusa, ribadita tra l’altro da eminenti studiosi, che la flessibilità del lavoro avrebbe costruito per l’Italia un paradiso di piena occupazione. Le imprese aspettavano solo un rilascio normativo degli inaccettabili vincoli ai licenziamenti o alle assunzioni temporanee. Ho già scritto di questo assunto e di come sia totalmente falso, ma è interessante sottolinearne un aspetto diverso. Se le aziende soffrono la crisi, licenziano, delocalizzano, chiudono per le ragioni sopra elencate, che effetto possono avere incentivi alle assunzioni o modifiche normative ai contratti? La risposta è elementare: nessun effetto positivo. Inoltre, come era stato ampliamente previsto, una flessibilità senza regole, senza continuità contributiva, ha generato ulteriori problemi contribuendo a comprimere la domanda interna ed aggravare la crisi. Lo stillicidio di dati sulla disoccupazione e sul crollo dei consumi (anche alimentari) dovrebbe contribuire a svegliare anche i più addormentati.
Alzare l’età pensionabile e ridurre le tutele contrattuali per i neo-assunti può comportare un piccolo beneficio nel breve periodo ed un disastro a medio termine, perché calano le entrate fiscali e quindi i conti dello stato tornano velocemente a peggiorare (nei periodi delle ultime “riforme” del mercato del lavoro il debito pubblico ha continuato la sua inarrestabile ascesa).
Le uniche riforme sensate riguardano la Redistribuzione del Lavoro nelle aziende produttive e l’introduzione di una forma di Reddito Minimo per tutti coloro che non potranno essere ricollocati nel mercato del lavoro (fenomeno che ho già discusso in altri pezzi).

Stato. Non necessariamente un elevato peso del settore pubblico è un male per un sistema economico (nelle condizioni sopra indicate di quello italiano nello specifico). Il peso dello stato diventa un problema se non fornisce servizi efficienti, se è costoso, permeato dalla corruzione e condizionato dalla politica nel senso deteriore del termine. In questo caso, contrariamente agli altri settori, si potrebbero ottenere grandi risultati con provvedimenti normativi. Una severa legge anticorruzione ad esempio potrebbe contribuire ad abbassare i costi delle opere pubbliche, che sono i veri costi della politica che nessuno riesce ad abbattere. Una legge che riesca ad impedire le assunzioni clientelari nell’insieme degli enti pubblici (ospedali e posizioni dirigenziali degli enti pubblici) con pene esemplari per i trasgressori, contribuirebbe in breve tempo ad aumentare l’efficienza della pubblica amministrazione, più della visita fiscale per chi ha 37 di febbre. La corruzione contribuisce ad aumentare il costo delle opera pubbliche e la gestione della burocrazia, inoltre genera un circolo vizioso che coinvolge il privato inefficiente selezionando le imprese peggiori per l’adempimento degli appalti. Aperta la porta alle corruttele è naturale che la criminalità organizzata ne approfitti entrando di fatto nel meccanismo di gestione degli enti pubblici.
La politica di gestione del settore pubblico fatta  esclusivamente di tagli, oltre a disincentivare i settori virtuosi, deprime l’economia. Quando i tagli colpiscono cultura e beni artistici si contribuisce al depauperamento dell’unico patrimonio non riproducibile che il paese possiede contribuendo ad accelerare le dinamiche depressive già in atto (a questo punto anche in termini di competenze).
Dismettere parti del patrimonio pubblico, senza aver definito con chiarezza un piano per valorizzarne la parte restante, potrebbe essere un palliativo utile solo a respirare per pochi mesi.

Conclusioni.  Le politiche economiche hanno effetti positivi o negativi su un sistema economico a seconda che riescano ad incidere su quelli che sono i problemi, analogamente alla risposta che un organismo umano ha rispetto all’assunzione di un farmaco. Nell’attuale momento storico e nell’attuale condizione economica italiana sono utili politiche che incrementino i consumi interni e gli investimenti. Non hanno senso ulteriori tagli della spesa, è possibile agire nello specifico di riduzioni mirate di spesa improduttiva a patto che il risparmio sia speso immediatamente e per intero in un altro settore. Non ha senso prorogare in eterno forme di cassa integrazione per aziende dismesse, si deve passare ad un sistema di redistribuzione del lavoro nelle aziende vitali e reddito minimo per i lavoratori espulsi dal mercato. Non ha senso dismettere il patrimonio pubblico a meno che il ricavato non venga investito, se il ricavato viene utilizzato per ridurre il debito le condizioni di solvibilità dell’Italia miglioreranno nel breve periodo e peggioreranno nel lungo. Bisogna sostenere il tessuto imprenditoriale attraverso riduzioni di oneri e burocrazia senza interferire nell’allocazione spaziale delle imprese. Bisogna intervenire con un piano straordinario di lotta alla corruzione sia nel pubblico che nel rapporto pubblico-privato. Piccoli interventi di spostamento di capitolati insignificanti, come quelli che si profilano oggi, non avranno alcun impatto sull’attuale dinamica economica italiana.