martedì 18 novembre 2014

How EU-inspired Big Banking has deepened Italy’s North-South divide

English version of my last article is available there: http://revolting-europe.com/2014/11/14/how-eu-inspired-big-banking-has-fed-italys-north-south-divide/

Thanks to Tom Gill and Revolting Europe.

Salvatore Perri*
When it comes to savings among Italian households there is no “cultural” difference between the country’s north and south, figures for the pre-crisis period (1989-2007) [1] show us. Even more suprising is the fact that the southern region of Campania, whose capital is Naples, has seen the highest rate of growth in the number of bank branches. If we interpreted this data solely on the basis of standard economic theory, we should expect a substantial homogeneity in the other financial parameters, but it is not so.
Standard theory tells us saving is the basis of investment, but in the journey that brings wealth  there are many variables that are not always controllable, linked to the “macro-economic stability” [2]. When the economy is stable, there is a good deal of certainty in terms of timescales in which to plan investment projects as well as access to finance at affordable rates. On the other hand, where the context is uncertain uncontrollable socio-economic factors mean that investment becomes a gamble.
This appears to be the case in the South, where despite comparable saving rates there are nearly twice as many bad loans as many regions of the north-central [3]. Crime, the size of the informal sector and pervasive corruption at all levels act as elements that can create a distortion of the cash flows. Therefore, it is more difficult to ‘convert’ savings into an investment, at least locally.
In the 8 or so years until the great financial crisis of 2008 Italy enacted a series of “reforms” that led to a concentration in the country’s banking sector. Without getting into specifics, an unleashing of competition led to the merger of banking groups, through mergers and acquisitions and cross-shareholdings. State-led industrial development of the South has also been all but stopped, both in terms of direct investment and through the Cassa per il Mezzogiorno, a regional development agency. Cuts to public funds and structural problems in the real economy have been transmitted to the financial sector, leading to the disappearance of a autonomous financial system in the South [4].
We were led to believe that the reorganization of the banking sector, under the pressure of European regulations, would lead to an improvement in the efficiency of credit allocation, but when you analyze the uneven territorial reality, it can lead to a disappointing territorial selection in the distribution of credit. This is what seems to have happened. The banks have merged, the decision-makers have moved almost entirely to the Centre and North of the country and bank branches spread across the territory of the South remain almost exclusively dedicated to harvesting deposits. Credit is provided to the South, but under much more punishing conditions than in the Centre-North. All this means that in the South higher risk investments are promoted, and these in turn have a lower success rate.
This further fuels the vicious cycle that exacerbates the gap between North and South. With an end to public intervention, government spending is cut and this is significant in explaining regional disparities. We have seen no convergence in terms of growth and the price of improvements to the banking sector have been paid by a further credit crunch to residents in the South.
No action has been taken to tackle the structural conditions of the gap: the inadequacy of the production system, the lack of hard and soft infrastructure, crime, corruption. So those who persist in doing business pay a double penalty, because they pay taxes in line with the national average but when they turn to the credit market they get a response that discriminate geographically. It is against this background that European funds have shown limited effectiveness, though with notable exceptions [5].
The financial sector reflects the reality of the North-South divide, and the resulting risk gap is reflected in credit terms. And if the decision-making centres are located elsewhere it is even more difficult to secure a push to invest in uncertain and risky ventures. The causes of the North-South divide are real and the financial sector reacts to them: any policy response should start from this awareness.
[1] For further information see Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane”, pubblicato dalla published by Rivista economica del Mezzogiorno (n.1-2 del 2014).
[2] See the paper by Peter L. Rousseau and Paul Wachtel, “Inflation thresholds and the finance-growth nexus” published by the Journal of International Money and Finance (no. 21.6 in 2002).
[3] In this regard, refer to the online data of the Bank of Italy.
[4] On this point, for example, you can see the essay by Alberto Zazzaro, “La scomparsa dei centri decisionali dal sistema bancario meridionale”, in Rivista di politica economica (n. 96.3/5 del 2006).
[5] As reported, among others, by Gianfranco Viesti, for example in http://profgviesti.it/wp-content/uploads/2013/04/2014viestiluongoperstrumentires.pdf.
Salvatore Perri has a PhD in Applied Economics from the University of Calabria. His research interests include economic policy analysis and macroeconomic theory
Translation/edit by Revolting Europe

mercoledì 12 novembre 2014

Le concentrazioni bancarie hanno alimentato il dualismo Nord-Sud



Salvatore Perri


Prendendo in considerazione il periodo antecedente la crisi (1989-2007)[1] balza immediatamente agli occhi una sostanziale omogeneità territoriale del saggio di risparmio delle famiglie italiane: sostanzialmente da Nord a Sud non esiste una diversità “culturale” nella scelta fra risparmio e consumo. Inoltre, sorprendentemente, la regione che ha sviluppato il maggior tasso di crescita del numero di sportelli è la Campania. Se interpretassimo questi dati solamente sulla base della teoria economica standard, ci dovremmo aspettare una sostanziale omogeneità anche negli altri parametri finanziari, ma è proprio qui che i dati ci raccontano un’altra storia.

Sempre secondo la teoria standard, risparmio è la base dell'investimento, ma nel tragitto che porta la ricchezza a trasformarsi intercorrono relazioni fra molte variabili, non sempre controllabili, connesse alla “stabilità macroeconomica”[2]. In un contesto macroeconomicamente stabile, vi è un’orizzonte temporale relativamente certo in cui pianificare i propri progetti di investimento e richiedere agli intermediari finanziari le risorse a tassi “possibili”. Per contro, laddove il contesto è incerto, per l’azione di fattori socio-economici incontrollabili, l’investimento diventa un azzardo. Questo appare essere il caso del Sud in cui a fronte di saggi di risparmio omogenei le sofferenze raggiungono quasi il doppio rispetto alle regioni del centro-nord[3]. Criminalità, settore sommerso, pervasività della corruzione a tutti i livelli agiscono come elementi in grado di creare una distorsione dei flussi finanziari. Pertanto il risparmio ha più difficoltà ad essere “convertito” in investimento, almeno in loco.

Il periodo considerato è ricco di “riforme” che hanno riguardato il settore Bancario. Senza entrare nello specifico, la spinta a competere in un mercato aperto ha comportato l’aggregazione dei gruppi bancari, fusioni acquisizioni e partecipazioni incrociate. Inoltre, è finita sostanzialmente la spinta diretta dello Stato nell'indirizzare lo sviluppo industriale del Sud, sia per quanto riguarda gli investimenti diretti sia per quanto riguarda la via surrogata della Cassa per il Mezzogiorno. Il ridotto flusso finanziario pubblico e le difficoltà strutturali dell'economia reale si sono quindi trasmesse al settore finanziario comportando la sostanziale scomparsa di un sistema finanziario meridionale autonomo[4].

Ci si aspettava che la riorganizzazione del settore bancario, sotto la spinta delle normative europee, comportasse un miglioramento nell’efficienza del credito erogato, ma quando si analizzano realtà territoriali disomogenee il risparmio di costo può determinare una selezione territoriale deludente nella distribuzione del credito. Questo è quello che sembra essere avvenuto. Le banche si sono accorpate, i centri decisionali sono stati spostati pressoché interamente al Centro-Nord e le filiali distribuite capillarmente nel territorio del Sud rimangono quasi esclusivamente con la sola funzione di raccolta. Il credito viene erogato anche al Sud, ma solo a condizioni estreme rispetto al Centro-Nord. E ciò comporta che si privilegiano al Sud gli investimenti a più alto coefficiente di rischio, che di conseguenza, hanno una percentuale di riuscita minore.

Così si è alimentato ulteriormente il circolo vizioso che acuisce le distanze fra Nord e Sud. L'intervento pubblico termina, i consumi pubblici diminuiscono e questi ultimi sono significativi nello spiegare i divari territoriali. La convergenza in termini di crescita non c’è, i miglioramenti nell’efficienza di costo del settore bancario sono stati pagati da un’ulteriore stretta creditizia nei confronti dei residenti nelle regioni del Sud. Non si interviene sulle condizioni strutturali del divario: l’inadeguatezza dell’apparato produttivo, l’insufficienza delle infrastrutture materiali e immateriali, la criminalità, la corruzione. Così chi si ostina a fare impresa riceve una doppia penalizzazione, perché paga tasse in linea con la media nazionale ma quando si rivolge al mercato del credito ottiene una risposta discriminata territorialmente. In questo contesto, anche i fondi europei hanno dimostrato scarsa efficacia, seppure con lodevoli eccezioni[5].

Il settore finanziario “subisce” le ragioni reali del dualismo Nord-Sud, e il conseguente divario di rischiosità, riflettendole nelle condizioni di credito. E se i centri decisionali sono posizionati altrove risulta ancora più difficile che ci sia una spinta ad investire sul rischioso e sull'incerto. Le cause del divario Nord-Sud sono di carattere reale e il settore finanziario le asseconda: per queste ragioni le risposte politiche dovrebbero partire da questa consapevolezza.







[1] S. Perri, Gli effetti delle trasformazioni del sistema bancario sulla crescita economica delle regioni italiane, in "Rivista economica del Mezzogiorno" 1-2/2014, pp. 155-186, doi: 10.1432/77791
[2] Rousseau e Wachtel (2002).
[3] Elaborazioni su dati Banca D'Italia, base informativa pubblica on-line.
[4] Zazzaro (2006).
[5] Come segnalato, tra gli altri, da Viesti.

martedì 3 giugno 2014

Italy’s economic problems are not caused by the euro, but by the country’s chaotic political system

My point of view about Italy and Euro. Un mio pezzo su Italia ed Euro sul blog della London School of Economics. http://blogs.lse.ac.uk/europpblog/2014/06/03/italys-economic-problems-are-not-caused-by-the-euro-but-by-the-countrys-chaotic-political-system/

Despite some signs of economic recovery in the Eurozone, the Italian economy has continued to struggle. Salvatore Perri assesses the argument that Italy’s economic problems are largely a result of its membership of the euro. He argues that most of the problems identified with Italy’s use of the single currency would likely be exacerbated with an independent currency and that the real issues facing Italy are a consequence of the decisions made by Italian politicians.
 
In Italy, the debate about the euro is becoming increasingly complex. Many analysts, politicians, and also some economists have openly suggested that exit from the euro could be a good solution for the Italian economy. Nevertheless, there are some aspects which are not given sufficient attention in this analysis. What would the impact of leaving the euro actually be on the Italian economy?

The most important argument which has been made against the euro in Italy is that the productivity of Italian workers has declined since monetary union. This may well be true, but it is difficult to assert that the euro was the biggest cause of this development. In all developed countries, the so called ‘financialisation’ of the economy has generated a reduction in the weight of work for modern societies due to the financial sector absorbing a greater chunk of a nation’s financial resources.

Credit: The Polish (CC-BY-SA-3.0)
Credit: The Polish (CC-BY-SA-3.0)

Historically, Italy was a country which was capable of transforming raw materials into products which could be sold to other countries. Independently of which currency is used, globalisation has reduced the opportunity for Italian goods to be successful in world markets as developing countries have gained a larger stake in exporting goods to areas such as Europe.

Competition over goods will always be determined by two factors: cost and quality. Italian goods are now in a situation where they will only be in an advantageous position if they are of greater quality than alternatives, with a high level of technological skill in terms of production. Reducing wages is therefore not the solution to making Italian goods competitive again and the productivity of workers is not the problem facing Italian industries.

Exit scenarios

Leaving this issue to one side, let’s imagine that Italy did leave the euro and opted to take a ‘new lira’ as its legal currency. Under this scenario what would happen to wages? The new lira would be weaker than the euro and, as such, Italian firms which export goods would be at an advantage. Unfortunately, however, Italy is not blessed with oil or other raw materials and would therefore have to pay a premium to produce these goods, which could also potentially lead to high levels of inflation.

Far from obtaining an advantage by leaving the euro, this course of action would probably achieve the opposite of what is intended. Workers would have to pay higher prices to sustain themselves and, as a consequence, would demand higher wages. Firms, in turn, would have to increase prices further to compensate for the higher staff costs, potentially leading to requests for government support to help production.

The result would likely be similar to the situation in the late 1970s, with high inflation and high levels of social instability. Under these conditions Italian exporters would certainly not be in a position to compete more effectively in world markets. Moreover, it should also be remembered that in southern Italy criminal organisations remain strong: if inflation is growing and the state becomes weak, the main beneficiaries may end up being Italian Mafias.

The real problem with Italy’s use of the euro

Clearly, the euro has more than one problem, but these issues have been presented incorrectly in the Italian debate. In reality the solution is not ‘less Europe’, but more Europe. Monetary policy has become integrated, but local governments still compete over fiscal policy. The result is that countries across the Eurozone possess different kinds of policies, from social security to commercial laws. The fact that the European market is not complete is what disadvantages Italian firms.

High levels of corruption, criminality, and inefficiencies in the country’s bureaucratic and banking systems are additional problems in Italy. None of these problems will be solved by exiting the euro and in many ways leaving the single currency could achieve the opposite result. If Italian politicians again have the capacity to determine both fiscal and monetary policy why should we expect a different situation from that which occurred in the 1980s, where policies were regularly set with the aim of securing votes rather than solving existing problems?

Contrary to public opinion, Italy is not respecting important European legislation in the areas of competition and anti-corruption, among others. The reasons for this are clear: the Italian system is not competitive internally, with banks and firms closely connected to each other, and politics having to take into account the opinion of the strongest voting blocks. The sale of the ‘old’ Alitalia airline in 2008 is a prominent example, where the Italian government split the company into two parts and sold the profitable section to a group of Italian investors, at great cost to taxpayers, under the guise of preventing it becoming French property.
Earlier this year, in the last period of Enrico Letta’s government, banks were also granted support through a highly unusual operation which involved hiking the value of the Italian central bank’s share capital from 156,000 euros to 7.5 billion euros (something which had not previously been done since the 1930s). The decree simultaneously set a ceiling of three per cent on the amount of the bank’s shares that could be owned by any individual stakeholder.

This ensured that other banks such as Intesa and UniCredit were ‘forced’ to sell most of their existing stakes in the Italian central bank (42 per cent and 22 per cent respectively) back to the central bank itself at the now greatly increased rate. Contrary to the way it was presented, the legislation thereby sought to provide substantial financial support to these banks directly from the central bank.

Normally, if a government helps banks it is required to implement a change of governance strategy at the banks being granted support (as happened, for instance, in the United States), but in this case this did not happen. In Italy, the rule appears to be ‘help without control’ and this is the real problem. Italian politicians and bureaucracy evidently do not like to lose power with respect to the European institutions.

A vicious circle

To avoid problems, Italian politicians accept some European Commission indications related to austerity measures and cuts of public expenditure. However these are precisely the policies which are harming the Italian economy as the reduction of workers’ incomes (through labour reforms) reduces consumption and the level of production.

At the same time, these policies increase unemployment and thereby raise the amount of public debt. Considering the structural problems within the Italian economy, the fall in GDP experienced since the start of the crisis has virtually no limits as firms that close will not be replaced by others. Moreover, some of the measures within the fiscal compact and balanced budget requirements have fuelled Euroscepticism.

It is still possible to halt this trajectory with the right reforms. First, structural funds should be managed by international actors and not by an Italian bureaucracy which is largely unfit for purpose. Second, the European institutions should take a tougher line on the application of EU legislation in Italy, particularly with respect to anti-corruption laws, public agencies, private firms that work for the public sector, and the timing of judgements.

Finally, the European Commission should recognise that the economic conditions in Italy are close to a disaster and remove (temporarily) some hurdles in terms of public investment to sustain aggregate demand. This can be done in two ways: by helping firms to change production processes and by considering universal forms of protection for people that lose their jobs (such as a basic income). These measures have costs and may entail being flexible on the current deficit/GDP limit of three per cent. It may also be necessary to adapt the strategy of the European Central Bank and move resources directly to these projects without the intermediation of Italian banks.

Ultimately, the issues surrounding Italian public opinion and the European Union are generated by the contrast between Italian politicians and the European institutions. The Italian system is blocked by the inability of policy-makers to arrive at the correct solutions because they are scared of disrupting the political consensus.

In this context, the European institutions have to help Italy to implement reforms – not with absurd economic parameters, but through anti-corruption laws, social protection, a reduction in inequality and strict control of European funds to reduce the gap between the South and the North. The Eurozone may have real problems, but the current exit strategies being put forward for leaving the single currency are little more than a smokescreen used by Italian politicians to obscure their own responsibility for the crisis.

Please read our comments policy before commenting.
Note: This article gives the views of the author, and not the position of EUROPP – European Politics and Policy, nor of the London School of Economics.
Shortened URL for this post: http://bit.ly/1n63cVV

martedì 6 maggio 2014

Il rapporto Nord-Sud e la Lega dei No Euro

Salvatore Perri

Premetto che da quando ho aperto il mio blog, l'ho fatto per cercare di contribuire all'interpretazione della realtà economica quotidiana attingendo al mio bagaglio di studi pregressi (che è quello facevo quando avevo l'opportunità di insegnare). Ho cercato di limitare al minimo gli interventi di carattere particolare, oppure prese di posizioni politiche su temi locali, perchè esiste il rischio che le mie considerazioni siano classificabili "per partito preso" e non sulla base del loro contenuto specifico.

Tuttavia quando ho sentito Salvini dire che vuole "liberare il Sud", io, da persona genuinamente ed orgogliosamente meridionale, che ha studiato la storia economica italiana, che ha dovuto vivere all'estero nel periodo più fulgido dei governi leghisti, discendente diretto di un Cavaliere di Vittorio Veneto (che l'Italia l'ha dovuta liberare veramente) ho avuto un moto di ribellione incontrollabile perchè quando è troppo è troppo.

Non aspiro ad insegnare la storia a chi non è interessato a conoscerla, ma almeno quattro fatti stilizzati in croce per Salvini potrebbero esser utili, anche se dubito che possano stare su una felpa.

Nel rapporto economico fra Nord e Sud, dal dopoguerra in poi, è prevalso un rapporto di tipo dualistico che ha legato il destino del Sud a quello del Nord, tramite lo stato centrale, in una modalità che molti Economisti migliori di me hanno definito "Funzionale".

In una prima fase, si è deciso di investire pesantemente sulla ripresa produttiva delle aziende del Nord-Ovest, perchè più vicine ai mercati europei di esportazione e di importazione di materie prime. Il Sud era già deindustrializzato dai tempi dell'unificazione e tale scelta era stata consolidata dai governi unitari e dal fascismo.

Il Sud contribuiva con un massiccio flusso migratorio di lavoratori a basso costo, che si trasferivano con le intere famiglie a fornire la carne da cannone per l'impetuoso sviluppo delle fabbriche settentrionali provocando per converso il fenomeno del "degrado demografico" del Sud dato che le forze più vitali e dinamiche emigravano. Questo meccanismo entra in crisi perchè le città settentrionali non sono in grado, ad un certo punto, di sopportare i massicci flussi di immigrazione. Lo stato centrale interviene quindi con investimenti "a perdere" nel Sud (i famosi 10.000 forestali Calabresi su cui sono state fatte campagne elettorali da Bossi, opere pubbliche di dubbia utilità, fino ad arrivare ai tentativi industriali su settori decotti degli anni '70).

Deve essere chiaro che nessun politico sano di mente pensava che il Sud potesse svilupparsi in quel modo, il sistema nel suo complesso stava in piedi perchè le aziende del Nord avevano manodopera maschile illimitata dal Sud, mentre le famiglie e coloro che non potevano emigrare venivano stipendiati passivamente al semplice scopo di non emigrare. Il cicrcolo si chiudeva con il rientro dei flussi monetari verso Nord perchè lo sviluppo dei consumi portava i meridionali a comprare proprio quei prodotti industriali del settentrione. Il Sud ha quindi fornito manodopera ed ha rappresentato un "mercato protetto" per le merci settentrionali.

A peggiorare la situazione, il fatto che le risorse erogate verso Sud sono state sempre "mediate" dalla politica. I politicanti locali, in aggiunta ad alcuni settori sindacali, hanno sempre gestito le risorse a fini di consenso, garantendosi rendite di posizione che durano ancora oggi.

Questo meccanismo che aveva una sua logica interna entra in crisi quando, a metà degli anni '80, le imprese del Nord Ovest cominciano a ristrutturarsi e necessitano di meno manodopera, mentre l'apertura dei mercati internazionali consente ai consumatori del Sud di comprare merci d'importazione, rompendo il legame diretto dei flussi monetari da Sud a Nord.

A questo punto l'elettore medio del Nord comincia a chiedersi perchè finanziare lo stato centrale, ed il Sud, nasce la Lega che và al governo anche sulla base di interpretazioni farlocche di dati, smentite ampliamente nel libro di G. Viesti "Mezzogiorno a Tradimento".

Cosa fà la Lega una volta al governo? Perpetra lo stesso identico meccanismo clientelare che ha trovato. Si fanno 2 coalizioni (Polo delle Libertà al Nord, del Buongoverno al Sud) e si vincono le elezioni, promettendo più industria al Nord e più trasferimenti ai notabili del Sud. Non sono stati affrontati i temi dell'organizzazione della spesa, della corruzzione sistemica, della lotta alla criminalità economica, degli enormi privilegi di cui godono le varie corporazioni che paralizzano l'economia meridionale.

E pensare che qualche ministero la Lega lo ebbe. Ad esempio, negli ultimi governi, il ministero della "Semplificazione Normativa" avrebbe potuto favorire la trasparenza negli atti pubblici, che al Sud serve più del pane. Il ministero delle "Riforme" che avrebbe potuto frenare l'elefantiasi dei consigli regionali meridionali, fonte inesauribile di sperperi e sprechi. Per non parlare del ministro dell'Economia, che così bravo ad effettuare i tagli lineari (che puniscono quelli efficienti e premiano i cialtroni) che è stato addirittura ricandidato dalla Lega alle ultime elezioni.

Bene, anzichè "liberare il Sud", Salvini potrebbe creare un gruppo di autocoscienza, con Umberto Bossi (tutti i figli, e pure la moglie prepensionata del pubblico impiego), Calderoli, Maroni, Belsito, Tremonti, Milanese, Rosy Mauro ed il fidanzato con la laurea. Potrebbero chiudersi in una stanza e riflettere sul contributo che hanno dato alla risoluzione dei problemi quando ne hanno avuto la possibilità.

E' inutile cercare un nemico invisibile, l'Euro, per rifarsi una verginità postuma, altrimenti faranno la figura di quelli che venivano chiamati "i meridionalisti piagnoni" sempre pronti a dare la colpa al Nord per il loro sottosviluppo. Saranno i "leghisti piagnoni" che daranno la colpa alla Germania per coprire l'evidenza di quello che non sono stati in grado di fare.




mercoledì 16 aprile 2014

Sui benefici del Reddito Minimo Garantito in Italia (LIG)

Salvatore Perri

La crisi economica internazionale e la finanziarizzazione dell'economia, hanno (finalmente) sollevato il tema della diversa distribuzione del reddito all'interno dei sistemi economici. Il Reddito di Base ed il Reddito Minimo Garantito sono due delle forme possibili per scongiurare il tracollo delle economie c.d. "avanzate". Ho già scritto sulla necessità di redistribuire il lavoro e sul Basic Income. In questo pezzo, stimolato dagli attivisti internazionali del LIG, discuto perchè il Reddito Minimo Garantito è un passaggio obbligato per invertire le odierne tendenze economiche negative altrimenti inarrestabili.

La definizione di reddito minimo. Come ho già scritto in altri pezzi, i sistemi economici maturi, come quello italiano, necessitano di un mix di redistribuzione del lavoro e reddito di base per interrompere la spirale debito-disoccupazione che stà distruggendo le fondamenta della convivenza civile. Tuttavia, nel breve periodo, un primo passo verso una diversa configurazione della struttura economica può essere il Reddito Minimo Garantito (LIG), il quale si configura come un supporto al reddito di coloro che non stanno lavorando e delle persone inabili al lavoro per malattia. In sostanza il LIG è un meccanismo di welfare allargato (ma selettivo) che supporta il reddito delle persone dando attuazione ad un principio costituzionale di "dignità" della retribuzione, intesa in senso lato.

La fine del "self made man dream". Per anni in Italia si è attuata una politica economica di incentivazione alla nascita di nuove imprese che probabilmente non ha eguali nella storia moderna. In aggiunta alcuni governi hanno provveduto a ridurre alcuni tipi di imposte (su successioni, donazioni e patrimoni) al fine di spingere i potenziali imprenditori ad assumere lavoratori investendo nell'impresa. Inoltre, grazie ai fondi dell'Unione Europea sono stati finanziati progetti per "nuovi imprenditori". Gli esisti di questo mix di politiche è stato sconfortante. La maggior parte delle imprese nate con incentivi individuali sono cessate in breve tempo, mentre il peggioramento del quadro macroeconomico, con la riduzione dei profitti attesi, ha determinato un'ondata di crisi industriali con delocalizzazioni, ristrutturazioni, chiusure per fallimento.

Finanziarizzazione dell'economia e crisi. Il crollo delle prospettive di profitto derivanti dalle attività industriali ha spinto il "capitale" a cercare forme di investimento più remunerative, quali i fondi di investimento internazionali che si muovono con movente essenzialmente speculativo. Pertanto, il lavoro ha perso valore all'interno della società ed i consumi interni si sono compressi trascinando nella crisi anche le piccole e medie imprese che producono su scala locale. Le banche a loro volta hanno spostato i loro orizzonti di investimento verso i titoli di Stato (approfittando degli alti tassi dovuti alla crisi) disinvestendo sull'economia reale.

Dal profitto al reddito per uscire dalla crisi. Appare evidente che le politiche di incentivazioni alle imprese hanno fallito. Se non c'è prospettiva di profitto è impossibile che le imprese si espandano senza una giustificazione di mercato. Le politiche economiche di austerità hanno compresso ulteriormente il reddito disponibile e la finanziarizzazione dell'economia internazionale ha consentito rapide fuoriscite di capitali verso fondi speculativi. Come interrompere questa spirale? Una diversa distribuzione del reddito all'interno delle fasce sociali è l'unica politica economica in grado di determinare, anche nel breve periodo, una ripresa dei consumi.

Disuguaglianze e crisi. La crisi economica, qualunque ne sia l'origine, viene accentuata dalle disuguaglianze di reddito, in quanto più la ricchezza è concentrata in poche mani, meno consumi ci sono all'interno del sistema economico. In un contesto in cui gli investimenti crollano ciò determina un aggravamento della crisi. Distribuire il reddito in maniera meno diseguale consente di portare vantaggi economici nell'immediato, oltre a rappresentare una misura di carattere umanitario che caratterizza il diverso grado di civiltà di una nazione. Un aumento del reddito degli individui indigenti, anche modesto, si riversa inevitabilmente in consumi (spesso primari) riattivando le relazioni sociali di prossimità con le piccole e medie imprese locali.

Redistribuzione e capitalismo. Paradossalmente solo politiche redistributive possono salvare il capitalismo, come l'avvento delle socialdemocrazie all'inizio del 900 in Europa. Pertanto una battaglia per il Reddito Minimo dovrebbe essere combattuta anche dagli imprenditori che invece continuano a chiedere solo riduzioni di imposte (sicuramente troppo elevate) ed incentivazioni di vario genere che si sono già rivelate inefficaci. La redistribuzione del reddito, invece, comporterebbe uno spostamento di valori (economici e non) dal livello subnazionale al livello locale, riconnettendo il tessuto sociale, combattendo l'individualismo e favorendo la solidarietà fra gli esseri umani.

Conclusioni. Per ragioni, che non solo di ordine Economico, appare evidente che forme di diversa distribuzione del reddito sono ormai improcastinabili per interrompere la crisi economica ed arginare il disfacimento della società. Bisogna trasferire risorse verso i redditi individuali, verso una qualche forma di Reddito Minimo che consenta una vita dignitosa alle persone salvando la società dal disfacimento. E' importante che maturi la consapevolezza che questo non rappresenta un investimento umanitario bensì anche un investimento economico-produttivo.


mercoledì 19 marzo 2014

Brevi note metodologiche sulla Spending Review

Salvatore Perri

Premesso che ragionare sulle ipotesi, in Politica Economia, è come fare statistica nel caos, le indiscrezioni sulle proposte elaborate da Cottarelli ed offerte al governo, meritano una qualche discussione che ne aiuti a comprendere la portata.

In primo luogo, è assolutamente certo che una riduzione della tassazione finanziata dal taglio della spesa è comunque recessiva. La ragione risiede nel valore del moltiplicatore della spesa pubblica che è maggiore di quello delle imposte. Di conseguenza avremmo fatto tutto questo per ottenere ulteriori riduzioni del PIL? Non è necessariamente detto.

Gli effetti della Spending Review saranno espansivi, recessivi o neutrali a seconda dei redditi su cui andranno ad incidere. Si parte da un assunto economico di base, la propensione al consumo è decrescente rispetto al reddito, cosa che è alla base di ogni politica redistributiva. Si toglie a chi ha di più non perchè ci piace Robin Hood, per invidia sociale, o per dare sfogo al giacobinismo che è in ognuno di noi, bensì perchè un euro tolto ad un multimilionario andrebbe in risparmi, mentre lo stesso euro donato ad un individuo comune con buona probabilità andrà in consumi. Difatti è stato proprio il crollo dei consumi interni ad aggravare gli effetti della crisi, e non il calo delle esportazioni, come invece viene propagandato.

Pertanto, se i tagli di Cottarelli riusciranno ad incidere sugli stipendi dei managers pubblici, sui doppi e tripli incarichi, sulle indennità, le trasferte fittizie, e qualsivoglia beneficio cumulato da alcuni dipendenti del settore pubblico, l'effetto del combinato disposto di tagli e riduzione di tasse non è detto che sia recessivo.

La discriminante è il "soggetto" non è la categoria.

Questo è bene che se lo ricordino anche i sindacati, perchè se si riesce a ridurre il monte pensioni colpendo quelle piu' alte (sfruttando la progressività delle imposte, che è in costituzione, e non ipotetiche soglie che sappiamo già essere incostituzionali), è inutile che i sindacati scendano sul piede di guerra equiparando i tripli cumuli alla pensione del singolo incolpevole, ben sapendo che i tripli cumuli di alcuni pensionati pubblici sono stati finanziati con contributi pagati sempre dal settore pubblico, quindi dalla collettività.

giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.