giovedì 23 gennaio 2014

Il capitalismo dominato dalla finanza e la sua crisi



Salvatore Perri

Sempre più spesso si ascoltano ragionamenti secondo cui gli Economisti non servirebbero a nulla in quanto, non hanno previsto la crisi, non la risolvono, nonché varie ed eventuali, tanto varrebbe chiudere i corsi di Economia ed andare in collina. A poco vale sottolineare un passaggio di Galbraith che, citando Marx, spiegava che il capitalismo “avanza per crisi”, ma queste cose in genere si leggono nei corsi di Economia.

La mia opinione è che non ci si improvvisa Economisti dalla mattina al pomeriggio, come non ci si improvvisa Medici, Astrofisici o Esperti di Storia dell’Arte. Ma anche all’interno della stessa categoria degli Economisti ci sono una moltitudine di specializzazioni come in Medicina. A puro scopo di esempio, ho scoperto di avere il reflusso andando dal Gastroenterologo, fossi andato dell’Ortopedico non credo che avrei mai iniziato una terapia.

Ovviamente chiunque può dire cose intelligenti dal punto di vista economico, soprattutto se svolge professioni per le quali questo è necessario, in particolare quando si và sul piano tecnico specifico ci sono degli analisti nel privato che ne sanno più dei docenti. E’ piu’ difficile, invece, che un profano assoluto della materia ci offra soluzioni strutturate a livello “Macro”, perché le problematiche non sono mai banali.

Il Macroeconomista (lo studioso di Economia Politica) è assimilabile ad un Medico specializzato in “Medicina Generale”, analizza il soggetto, osserva le sintomatologie, e sulla base della propria cultura ed esperienza fornisce una diagnosi ed una prognosi. La differenza è il soggetto, che non è un complesso organismo umano ma un altrettanto complesso sistema economico. Anche le diagnosi mediche a volte non è detto siano giuste, ma non per questo bisogna chiudere le facoltà di Medicina. Cosa sia un Economista dal punto di vista formale lo ha spiegato Fabio Sabatini in un articolo su Micromega e Repubblica. Ma anche all’interno della categoria degli “Economisti” in senso stretto si può integrare la classificazione di Sabatini con altre 3 categorie. 

Ci sono gli “Illuminati” cioè coloro che, in base ai loro studi e ricerche, analizzano correttamente i fenomeni economici e sono in grado di anticipare le dinamiche future fornendo spunti per la correzione delle politiche economiche. Ci sono i “Fulminati” che si sono svegliati una mattina convinti di avere le risposte a tutte le domande, oppure che una particolare teoria a cui sono affezionati sin da bambini salverà l’universo-mondo e non và messa in discussione pena la scomunica. In ultimo, sicuramente per importanza, ci sono i “Mistici”, che hanno avuto carriere così miracolistiche da essere troppo impegnati a rendere omaggio ai loro Santi Patroni per accorgersi che c’è un mondo là fuori, ma almeno questi ultimi non sono dannosi per l’ambiente perché non li si vede e non li si sente.

Io non so se sono Illuminato o Fulminato (o entrambe), lascio a chi legge i miei pezzi stabilirlo, sicuramente non sono Mistico (visto l’andamento della mia carriera).

Per certo Eckhard Hein è uno studioso serio e razionale. Ho letto il suo ultimo libro The Macroeconomics of Finance-dominated Capitalism – and its Crisis” edito da Edgar Elgar (2012), e credo che possa rappresentare un ottimo esempio di che cosa vuol dire fare i Macroeconomisti.

Hein analizza le trasformazioni economiche provocate da un capitalismo dominato dalla finanza, individuando i canali attraverso i quali esso opera e propone soluzioni di politica economica per uscire dalla crisi. Fa tutto questo attraverso l’analisi dei dati di un gruppo di paesi c.d. “avanzati” e con l’ausilio del modello di crescita endogena proposto originariamente da Kalecki.

In primo luogo, l’autore dimostra che nel capitalismo dominato dalla finanza il reddito da lavoro si riduce a vantaggio dei profitti da capitale, delle rendite finanziarie e dei salari dei managers. Questo meccanismo non sarebbe di per sé dannoso, se i profitti così ottenuti fossero reinvestiti nell’economia reale. Invece Hein nota che la finanziarizzazione dell’economia produce un regime economico nel quale l’orizzonte temporale degli investimenti “si accorcia”. In pratica gli operatori guardano al brevissimo periodo, cercando di massimizzare i profitti finanziari in poco tempo, di conseguenza, si ottiene come risultato un sistema in cui ci sono “profitti senza investimenti”. Per esemplificare, anziché in una azienda si investe nel fondo speculativo.
Sostanzialmente a livello macro, ciò che avviene è un’estrazione di rendita finanziaria sovranazionale, laddove i capitali sono liberi, mentre il reddito dei lavoratori e le risorse a disposizione delle imprese si riducono.

Hein nota anche che i regimi economici che emergono dal capitalismo finanziario sono estremamente instabili dal punto di vista macroeconomico. In una mia ricerca, (che spero sia pubblicata a breve), dimostro empiricamente che l’instabilità macroeconomica impedisce una corretta trasformazione dei risparmi in investimenti, accentuando il fenomeno sottolineato da Hein. Pertanto unendo questi due argomenti si ottiene un circolo vizioso potenzialmente devastante e senza limiti.

Un altro aspetto interessante riguarda il cambiamento di risultati considerati come acquisiti dalla letteratura classica. Si sosteneva che un aumento del potere degli azionisti all’interno della società comportasse un incremento del tasso di accumulazione del capitale e di conseguenza della crescita di lungo periodo. Secondo Hein, le dinamiche descritte in precedenza ci raccontano un’altra storia, gli azionisti utilizzano i dividendi per il profitto di breve periodo, e per le ragioni di cui sopra, sottraggono denaro alla circolazione “produttiva” privilegiando quella speculativa. Di conseguenza l’aumento del potere degli azionisti anziché agire come stimolo alla crescita finisce per deprimerla.

Quando Hein introduce esplicitamente nel modello il debito privato, i risultati che ne scaturiscono sono tutt’altro che incoraggianti. Come abbiamo detto il reddito dei lavoratori si stà riducendo, gli stessi per mantenere un livello congruo di consumi si indebitano. Ma se il tasso di interesse è più alto del tasso di crescita dell’economia il debito aggregato tende a crescere senza limiti, in assenza di regolazione esterna (fenomeno che avevo analizzato in un altro pezzo).

Successivamente l’autore mette in evidenza che l’esplosione del debito in alcuni paesi europei ha colpito anche gli altri, perché la riduzione della domanda aggregata complessiva ha danneggiato le loro esportazioni.

In conclusione e riassumendo, il capitalismo dominato dalla finanza (insieme alle politiche economiche neo-liberiste) è alla base della crisi che stiamo vivendo. Per uscire da questa situazione è necessario, secondo Hein, muoversi su diversi profili. A livello intranazionale devono essere varate politiche fiscali che restituiscano potere d’acquisto ai redditi da lavoro, anche in termini di aumenti salariari. Questo ridurrebbe gli effetti derivanti dall’incremento del debito privato. Per quanto riguarda il contesto europeo, Hein sostiene che sia necessario un maggior coordinamento delle politiche economiche tra i diversi stati, al fine di muovere risorse dai paesi in surplus commerciale verso quelli in deficit per ridurre gli squilibri (che durante la crisi sono aumentati).

Un aspetto decisivo in questo senso è la considerazione che l’ampiezza dei fenomeni evidenziati ha dimensione sovranazionale, di conseguenza anche una buona politica, varata dal singolo stato potrebbe rivelarsi inefficace, se gli altri paesi fanno l’opposto. Inoltre è necessario, secondo l’autore, reintrodurre la separazione fra banche commerciali e banche d’investimento, oltre ad una efficiente regolazione del settore finanziario a livello sovranazionale.

Ovviamente nel libro c’è molto di più ed ho sottolineato solo gli aspetti che hanno colpito la mia curiosità, pertanto ne consiglio la lettura ai più “appassionati di Economia”. Economisti e non.